L'Italo-Americano

italoamericano-digital-10-3-2019

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GIOVEDÌ 3 OTTOBRE 2019 www.italoamericano.org L'Italo-Americano IN ITALIANO | HERITAGE MEMORIA IDENTITÀ STORIA 17 I l mio rapporto con il piemon- tese, il dialetto della mia regione, è sempre stato ambivalente. Crescendo in una piccola comunità rurale, l'ho imparato senza nemmeno accorgermene, perché tutti intorno a me lo parlavano. Anche i miei genitori, che mi parlavano sempre in italiano, spesso usa- vano il piemontese quando parla- vano tra di loro. I miei nonni usa- vano solo quello, come quasi tutti quelli della loro generazione, quella nata nei primi vent'anni del XX secolo. Se non c'era nulla di sbagliato nel capire il nostro dialetto regionale, parlarlo, per la mia generazione - me compresa - era una storia completamente diver- sa: da bambini a scuola, e ancor più da adolescenti, non degnava- mo di un secondo sguardo i coetanei che parlavano piemon- tese. Noi ragazzi che andavamo a scuola in una città più grande - ma ancora con una mentalità molto provinciale - giorno dopo giorno li avremmo chiamati "bifolchi", "gente di campagna", "senza istruzione". Ma il nostro atteggiamento adolescenziale verso gli idiomi locali non era semplicemente il risultato di quella necessità di ribellione con- tro lo status quo e la tradizione, tipica di tutti gli adolescenti. Era piuttosto il risultato di un atteggiamento negativo molto più ampio, portato avanti dalla gente di tutte le età e di tutte le estrazioni culturali: parlare in dialetto era segno di povertà della lingua, di mancanza di istruzione, anche di ristrettezza mentale, e mentre il suo uso tra gli anziani era accettato, perché appartenevano a una generazione completamente diversa, nelle regioni ricche del Nord c'è stato un periodo in cui era inconcepi- bile usare il proprio dialetto se si aveva meno di 70 anni. In un certo senso, gli italoamericani possono capire questo atteggiamento meglio di tanti altri, probabilmente cresciu- ti con genitori che hanno voluto parlare l'inglese anche a casa, per assicurarsi che la lingua madre non diventasse un significante socio-culturale, un segno che li avrebbe resi diversi dal resto delle persone attorno. Se non l'avete sperimentato in prima persona, sono abbastanza sicura che conoscete qualcuno a cui è successo. Questo era l'atteggiamento nei confronti dei dialetti in Italia negli anni del dopoguerra e nei decenni del boom economico, gli anni '60 e '70, che ha finito per influenzare la percezione dei lin- guaggi regionali anche negli anni '80 e '90, quando io, adolescente, vedevo chi usava il dialetto come una persona poco "cool". Ma negli ultimi vent'anni o giù di lì, le cose sono profonda- mente cambiate poiché è in atto una vera e propria riabilitazione culturale dei dialetti in tutta la penisola, da nord a sud. Ed era proprio il momento di farlo. Credo che l'amore per le lingue regionali, da poco riscop- erto in Italia, abbia molto a che fare con la necessità di risco- prire, di abbracciare di nuovo la nostra identità culturale: se ci pensiamo, lo facciamo a 360 gradi, con il nostro delizioso orgoglio per il cibo nazionale e per tutto ciò che è veramente e originariamente Made in Italy. Lo facciamo con i nostri continui tentativi di riportare la vita nei villaggi e nelle città rurali, vit- time di decenni di spopolamento che oggi, però, sono meta privi- legiata per tutti i giovani impren- ditori che vogliono costruirsi un futuro migliore riacquistando competenze antiche e tradizion- ali. Se ci si pensa, tutto questo ha un denominatore comune molto chiaro: tornare alle nostre radici. Abbiamo detto che si tratta di recuperare la nostra identità cul- turale. Sì, perché se un mondo multiculturale, globalizzato e iperconnesso ha arricchito le nos- tre vite e ci ha fatto apprezzare e comprendere un po' meglio la bellezza della varietà culturale, ci ha anche reso più confusi su chi siamo veramente come nazione e come popolo. Gli esseri umani sono spesso più inclini ad abbrac- ciare il nuovo e a scartare il vec- chio, perché sentono che il "nuovo" è sempre sinonimo di "meglio", ma la vera lezione che il multiculturalismo e la globaliz- zazione dovrebbero insegnarci è che anche noi abbiamo qualcosa di bello da dare al mondo. Infatti, spesso gli italiani sembrano essere gli unici a non rendersene conto, quando si tratta della loro cultura e del loro Paese. Ho vissuto all'estero per più di quindici anni e ammetto che anch'io ero xenofoba quando ho lasciato l'Italia, a 20 anni. Poi ho conosciuto e amato decine di cul- ture diverse, ho imparato le lingue e ho viaggiato. Ho incon- trato persone provenienti da altre parti d'Italia, persone con cui non sarei mai diventata amica se tutti fossimo rimasti a casa propria. Sono diventata una vera cittadina del mondo, lo sono ancora e ne amo ogni aspetto. Eppure, questa consapevolezza del mondo mi ha anche fatto capire che non ci può essere apprezzamento per la cul- tura del mio prossimo, se non apprezzo, non conosco e non amo la mia cultura, inclusi i suoi lati negativi, che devono essere riconosciuti, ma non devono diventare l'unico aspetto identi- ficativo. I dialetti sono il modo in cui la nostra gente, le nostre comu- nità locali si esprimono da secoli: in un paese giovane come l'Italia (in fin dei conti siamo uniti da poco più di 150 anni), questo non può essere dimenticato o sottova- lutato: c'è letteratura scritta in dialetto, c'è musica cantata in dialetto, c'è poesia d'amore com- posta in dialetto. Una ricchezza culturale che non può e non deve essere ignorata, né dimenticata. Perché in Italia non si può essere semplicemente "italiani", si è anche piemontesi, toscani, sicil- iani o umbri. Siamo tutti uguali ma assolutamente diversi, ci capiamo tutti perché veniamo tutti dallo stesso luogo, eppure ci piace sottolineare le nostre reci- proche differenze, proprio come tendono a fare i fratelli e le sorelle. In quanto forme di espressione così profondamente radicate nella tradizione e nella cultura, i dialetti ci permettono di godere della nostro estroso modo di essere diversi l'uno dall'altro, mantenendo forte la nostra ital- ianità. La riscoperta dei dialetti è stato un lungo processo e un modo per guardare indietro nel- l'anima del nostro patrimonio culturale. E' stato, ed è ancora, un percorso difficile da seguire, per- ché non tutti sono d'accordo con il modo di pensare della gente come me, e molti idiomi region- ali sono ancora a rischio scom- parsa per mancanza di persone che li praticano: chissà se tra cento anni li useremo ancora. Ma per il momento, godiamo- ci la rinnovata popolarità dei dialetti, la piacevole sensazione di "tornare a casa" per davvero quando li usiamo per chiacchier- are con un anziano del nostro vil- laggio, o con un fratello, per il semplice piacere di ricordare i nostri nonni, coloro che ci ha insegnato a parlare così. I dialetti sono una parte importante dell'identità culturale italiana. Sono preziosi, belli, hanno bisogno di essere protetti. Quindi, se conoscete il vostro dialetto regionale, usatelo: potrete solo guadagnarci. Una donna e due bimbi in costume tradizionale: così come, e forse più ancora degli abiti, i dialetti ci aiutano a capire le tra- dizioni di un luogo (Ⓒ: Dreamstime) Dimmi come parli e ti dirò chi sei: l'Italia e la vera bellezza dei dialetti

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