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L'Italo-Americano GIOVEDÌ 22 AGOS TO 2013 PAGINA 11 Delusioni azzurre nei mondiali di atletica. Bolt si conferma fulmine da record tra le polemiche russe per le leggi anti-gay ANDREA TEDEsCHI Alla fine, forse, del Mondiale di atletica di Mosca sarà meglio ricordare le tre vittorie di Usain Bolt che lo portano a quota 10 medaglie iridate, di cui otto d'oro e due d'argento, eguagliando il figlio del vento Carl Lewis che però si guadagnò l'ultima a 32 anni a Stoccarda 1993. Bolt di primavere ne ha appena 27, e se anche non riuscisse più a superare i suoi incredibili record del mondo ottenuti nei 100, 200 e nella staffetta 4x100 la freccia di Trelawny, visto il distacco che continua ad avere nei confronti dei diretti concorrenti, promette di mietere ancora successi negli anni a venire. Per il resto, e dal momento che non siamo giamaicani, meglio dimenticare un po' tutto, soprattutto il mondiale italiano. Non che le aspettative fossero eccelse (sono anni ormai che non si vede l'ombra di un campione dentro e fuori l'anello da 400 metri), ma anche le poche speranze rimaste sono naufragate sotto il cielo (e il caldo) di una capitale russa rimessa a nuovo. Se si eccettua l'argento di Valeria Straneo nella maratona femminile ottenuto il primo giorno di gare, da un'atleta miracolosamente recuperata alla vita sportiva dopo anni di difficoltà fisiche, per il resto le caselle delle meda- Ennesima vittoria nel salto con l'asta per la campionessa russa Yelena Isinbayeva glie registrano lo zero assoluto. E a dire la verità, anche di quarti posti non se ne sono visti. Come dire che non c'è da dare nessuna colpa alla sfortuna, a parte l'incredibile infortunio subito dal pugliese Daniele Greco a pochi minuti dall'inizio delle qualificazioni del salto triplo: strappo al bicipite femorale e ritiro forzato. Otto mesi di lavoro buttato insieme alle più concrete speranze di medaglia azzurre. Poco ha potuto fare in finale Fabrizio Schembri, ottavo, il peggiore sulla carta dei tre azzurri del triplo. Il terzo, Fabrizio Donato, bronzo alle Olimpiadi dello scorso anno, ha mancato la finale per due centimetri. Ma di certo avrebbero potuto poco in una finale che per la prima volta dopo 15 anni ha visto gli atleti superare i 18 metri. La marcia, grande territorio di conquista dei nostri fino a qualche tempo fa, è praticamente scomparsa. Uomini latitanti, la sola Elisa Rigaudo ha onorato la rassegna con un quinto posto finale che a 33 anni potrebbe essere il suggello di un carriera ormai sulla via del tramonto dopo il bronzo di Londra 2012. Restano le speranze, come si diceva. Soprattutto da due saltatrici molto promettenti. Nel lungo la italo-ucraina Dariya Derkach, 20 anni, ha assaporato la Con 10 medaglie Usain Bolt ha uguagliato il figlio del vento Carl Lewis grande platea mondiale senza riuscire a qualificarsi per la finale ma ha ottime prospettive di miglioramento. Nell'alto, la giovane friulana Alessia Trost, campionessa mondiale juniores della specialità, non è andata oltre il settimo posto per colpa di un piede di richiamo malandrino che ha abbattuto l'asticella all'ultimo minuto. Anche lei ha 20 anni. Ci sarà tempo per rifarsi. Per il resto, e stendendo un velo pietoso sulle prestazioni degli altri azzurri, quello di Mosca resterà il mondiale delle polemiche sulle leggi contro gli omosessuali varate dalla Russia di Vladimir Putin. Polemiche che hanno coinvolto atleti di primo livello come la russa Yelena Isinbayeva, profeta in patria con la vittoria (l'ennesima) nel salto con l'asta femminile, che difendono il diritto di Mosca di fare le proprie leggi e pretendono rispetto perché "in Russia gli uomini stanno con le donne e certe cose non esistono", e chi avrebbe voluto manifestare la propria solidarietà alle comunità gay semplicemente dipingendosi le unghie con i colori dell'arcobaleno e non ha potuto farlo perché la Federazione Internazionale non ammette "manifestazioni politiche" (sic) sul campo di gara. Nel 2013, ebbene sì, siamo ancora a questo punto. Kiss the football: il rock incontra Marquez re d'America: tris a Indianapolis. Rossi la palla ovale a Los Angeles chiude (ancora) al quarto posto It's only football, but I like it. Non è più tempo di sesso, droga e rock'n'roll: per le star della musica americana (a dire la verità, per quelle un po' attempate) la trasgressione adesso si chiama football. Per carità, non siamo a livello di Nfl (anche perché lì di soldi ce ne vogliono veramente tanti), ma a partire dall'anno prossimo in Arena League ci sarà da tirar fuori la lingua alle partite. Alzi la mano chi non si ricorda dei Kiss: trucco, cresta, chitarre a punta e lingua rossa hanno sconvolto gli anni '70 in campo musicale, pur non sapendo quasi suonare mezza nota. Ma nel bene o nel male sono diventate icone di un'epoca. Oggi, a sessant'anni suonati, e con stelle e saette ancora dipinte in faccia e sul palco, Gene Simmons, Paul Stanley e compagni si sono buttati in una nuova avventura, stavolta sportiva. Dal 2014 la squadra di football di Los Angeles in Arena Football League, la principale lega professionale americana di football a 8, si chiamera LA Kiss. E i proprietari saranno proprio i rocker mascherati. "Quello che vogliamo fare - hanno detto i rocker - è riportare questo sport a Los Angeles" dopo la fine dell'avventura dei Los Angeles Avengers, conclusa nel 2009 dopo otto stagioni allo Staples Center. La nuova squadra avrà come quartier generale l'Honda Center di Anaheim, e gli abbonamenti per le partite dei LA Kiss saranno in vendita a partire da 99 dollari e includeranno anche un concerto della band. Un matrimonio tra football e rock che evidentemente funziona. La finale del campionato di Arena League si svolgerà sabato a Orlando, in Florida, tra gli Arizona Rattlers e i Philadelphia Soul, di cui sono proprietari Jon Bon Jovi e il chitarrista Richie Sambora. Al termine della partita saliranno sul palco proprio i Kiss. La band dei Kiss ha comprato la squadra di football di Los Angeles Un "girone di ritorno" (se così si può chiamare) che inizia a Indianapolis così come si era chiuso a metà luglio a Laguna Seca. Dalla California all'Indiana, la musica in Moto GP non cambia. Buon per Marc Marquez, un po' meno per Valentino Rossi. E per tutto il resto della compagnia, Lorenzo e Pedrosa compresi. A dire la verità, per Marquez si può parlare di un tris a stelle e strisce, perché l'enfant prodige iberico a inizio stagione ha trionfato nella gara di Austin. Evidentemente si trova bene in terra americana. A Indianapolis le cose si erano però messe male alla partenza, con uno scatto bruciante dei due connazionali Dani Pedrosa e Jorge Lorenzo che avevano scalzato il giovane Marquez dalla posizione di pole conquistata sabato. Il trio ha subito preso in mano la gara, mentre dietro Crutchlow guidava il gruppo degli inseguitori tra cui Rossi. Lorenzo, solo contro lo strapotere Honda, ha provato la fuga, ma la coppia arancione non ha mai mollato la presa, restando sempre sotto il mezzo secondo di distacco dal campione del mondo e invertendo le posizioni al nono giro quando Marquez ha passato Pedrosa. A questo punto Marquez ha alzato il ritmo e l'epilogo della storia, scontato, è arrivato all'inizio del 13° giro: Marc ha inquadrato Jorge e lo ha passato in semiacrobazia, con un esemplare cambio di direzione a velocità supersonica, alla seconda curva. Marc Marquez Di qui in poi l'unico dubbio ha riguardato il 2° posto. Dubbio risolto in staccata a due giri dalla fine con un gran sorpasso di Pedrosa ai danni di Lorenzo. Momenti spettacolari, come la battaglia dietro fra Bautista, Crutchlow e Rossi, vinta alla pe- nultima curva da Valentino che ha conquistato il quarto posto. Una vittoria che consolida la leadership dell'outsider Marquez nel mondiale MotoGp con 188 punti e lo consacra come il vero capitano del team Honda Hrc, con buona pace di Pedrosa partito con i galloni del capo e i favori del pronostico e che ora si trova dietro di 21 punti rispetto al ragazzino. Ottimo Lorenzo, in grado di non perdere troppe posizioni nonostante il doppio infortunio di Assen e del Sachsenring e una Yamaha che non si è finora dimostrata all'altezza delle Honda: 35 i punti da recuperare. Valentino Rossi può puntare solo a qualche vittoria in una delle otto tappe rimaste. E sarebbe già tanto.