L'Italo-Americano

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4 www.italoamericano.com L'Italo-Americano GIOVEDÌ 12 DICEMBRE 2013 In calo la vendita di auto nuove: il 35% in meno in 42 mesi di crisi e tasse. Così le strade italiane diventano più pericolose Secondo i dati diffusi dal Ministero dei Trasporti, il mese di novembre si è chiuso con sole 102.201 immatricolazioni di autovetture nuove, segnando una nuova flessione del -4,54% rispetto a novembre 2012. Federauto, la Federazione Italiana Concessionari Auto (che raggruppa 22 associazioni di imprese, in rappresentanza di circa 3.200 concessionari di autovetture, veicoli commerciali, industriali, che fatturano il 6% del Pil nazionale dando occupazione a 178.000 persone), sottolinea che il mercato auto non riparte, anzi, dopo 42 mesi di cali consecutivi si consolida il tracollo del settore con un dato che fa paura: rispetto alla media degli ultimi 5 anni, ossia 2 milioni di auto nuove immatricolate all'anno, si sono perse per strada il 35% delle immatricolazioni. "Nel 2013 mancano all'appello 700.000 vetture rispetto a quanto il mercato avrebbe potuto ragionevolmente assorbire se non ci si fosse impegnati a tartassarlo. E poiché lo Stato, mediamente, introita su ogni vettura 5 mila euro tra Iva, bolli e tasse varie, solo quest'anno l'Erario ha subito una perdita secca di circa 3 miliardi e mezzo di euro. A novembre solo 102.201 immatricolazioni di auto nuove in Italia: calo delle vendite del 4,54% rispetto a novembre 2012 Senza parlare della perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro, i costi degli ammortizzatori sociali e i costi collettivi per l'arresto dello svecchiamento di un parco circolante tra i più vecchi, inquinanti e pericolosi del mondo. Le nostre sono cifre da capogiro in un Paese che è a caccia di 200 miseri milioni per annullare la cosiddetta mini-Imu (la tassa sulla proprietà immobiliare). Mi chiedo se l'attuale Governo saprà valutare nella giusta prospettiva queste cifre per intervenire subito". È quanto si chiede Filippo Pavan Bernacchi, presidente di Federauto, l'associazione che rappresenta i concessionari di tutti i marchi commercializzati in Italia di auto, veicoli commerciali, veicoli industriali e autobus. Federauto ritiene che questa debacle continua sia causata dalla ricetta che l'Italia ha adottato per contrastare la crisi: ossia aumentare a dismisura le tasse, particolarmente su chi possiede o acquista un autoveicolo. Con l'aumento della pressione fiscale, famiglie ed imprese hanno dovuto riposizionarsi e molti clienti hanno rinunciato agli acquisti e ridotto gli interventi di manutenzione e riparazione. Questo anche a scapito delle normative e della sicurezza. Sull'argomento interviene anche Angelo Di Martino, presidente dell'Associazione dei Concessionari Mercedes: "Nonostante i duri processi di ristrutturazione, le concessionarie con- Nel 2013 si sarebbero potute vendere almeno altre 700,000 automobili tinuano ad assicurare la presenza sul territorio, con un focus rilevante sul post-vendita. Ma il futuro non dipende solo dalla nostra capacità, ma anche dal supporto delle Case automobilistiche e dalla volontà del Governo di attivarsi per favorire le imprese a creare innovazione, sviluppo e lavoro". Conclude Pavan Bernacchi: "A questo punto, l'anno si chiuderà intorno a 1.300.000 pezzi, e questo dato non rende l'idea del disastro per la filiera e per il sistema-Paese. Il nostro settore, con i suoi 70 miliardi di fatturato l'anno e con 1.200.000 addetti, è pronto a spingere la ripresa. La nostra aspettativa è che la nuova Consulta per l'automotive, voluta dal Ministero dello Sviluppo Economico segua rapidamente il programma di lavoro definito nell'ultima riunione del 27 novembre presso il Ministero dello Sviluppo Economico stesso offrendo, quindi, quella sponda istituzionale concreta, la sola in grado di rimuovere quelle condizioni che, sino ad oggi, hanno prodotto una contrazione delle immatricolazioni di autoveicoli ben superiore al calo del resto dell'economia reale. Calo che - dice il presidente di Federauto - ci colloca tra gli ultimi d'Europa". Il mercato tv italiano non giustifica gli alti cachet dei presentatori DOM SERAFINI In Italia ha fatto tanto scalpore scoprire che il popolare conduttore di programmi Rai, Fabio Fazio, ha percepito 5,4 milioni di euro in tre anni e che il popolare e divertente comico Maurizio Crozza era stato ingaggiato da RaiUno per (non confermate) 450.000 euro a puntata per 22 serate. Tanto scalpore anche per i 4 milioni di euro per lo spettacolo di Roberto Benigni "Dieci Comandamenti", poi cancellato dalla Rai. Gli editorialisti che molto sanno di politica in Rai, ma poco di televisione, sembrano d'accordo nell'affermare che se un personaggio attira un grande pubblico e genera profitti per l'azienza, i soldi pagati sono più che meritati. I detrattori, ultimamente l'on. Renato Brunetta ed il sen. Maurizio Gasparri, controbattono dicendo che la Rai provvede a un servizio pubblico ed è in forte perdita, pertanto non si possono permettere tali cachet. Naturalmente, anche questi detrattori parlano da politici e non da esperti del business dell'intrattenimento. Per capire come funziona il modello commerciale della televisione, ripercorriamo la storia del primo "business model" televisivo, creato dal fondatore della rete tv statunitense CBS, Bill Paley (che veniva dal settore dei tabacchi). Verso la fine degli anni '40, con la CBS, Paley stava perdendo tutti i soldi che la famiglia aveva accumulato con l'industria del tabacco. La concorrenza con le altre reti tv (ABC, NBC e DuMont) era spietata e i talenti erano scarsi. Le soluzioni erano due: o chiudere bottega oppure togliere alle altre reti i loro migliori talenti. Ed è ciò che Paley fece, con un blitz milionario per accaparrarsi tutti i popolari personaggi della NBC: Jack Benny, Red Skelton e tanti altri, diventando in poco tempo la "Tiffany Network", cioè la migliore. In questo caso, il rischioso gioco d'azzardo di Paley funzionò, portando la rete al primo posto. Paley fece aumentare le entrate pubblicitarie e quasi distrusse la concorrenza, che non era disposta a tenersi i talenti offrendo più soldi. Tornando in Italia, possiamo dire che il precedente creato dalla CBS potrebbe essere valido, ma non per il mercato italiano in quanto non c'è una vera concorrenza per i talenti. Infatti, se la Rai facesse a meno dei vari Fazio, Crozza e Benigni, questi non potrebbero andare su nessuna altra rete oppure, come nel caso di Crozza, sarebbero ingaggiati con un cachet molto più basso da reti minori. Nel mercato televisivo italiano non si dovrebbero giustificare gli alti cachet degli artisti con il fatto che fanno audience e portano pubblicità semplicemente perché questi personaggi non hanno mercato. Se, d'altro canto, Mediaset fosse disposta a ingaggiarli qualora non fossero disposti ad accettare le condizioni della Rai, allora il discorso sarebbe differente, in quando il cachet dell'artista verrebbe dettato dal mercato e non dalla sola audience che genera. In conclusione, per il mercato tv italiano, quando un artista non ha altre potenziali offerte, il cachet dovrebbe essere pari a un normale stipendio del settore con aggiunta la libertà di girare pubblicità e fare da testimonial (esempio Gerry Scotti per il Riso Scotti).

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