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GIOVEDÌ 26 GIUGNO 2014 www.italoamericano.com 18 L'Italo-Americano ITALIAN SECTION | Italiani (di Crimea) brava gente. Ma nell'Europa multietnica non c'è spazio per i sopravvissuti alle deportazioni "La tragedia sconosciuta degli Italiani di Crimea" scritto da Giulio Vigliotti e da Giulia Giacchetti Boiko è una delle te- stimonianze più recenti di una memoralistica dispersa dal tem- po, come la storia. Ne "La lingua dei pugliesi in Crimea" (1930-1940), oggi in- trovabile, furono pubblicate le traduzioni degli articoli scritti da Sismarev, grande studioso della comunità italiana in Crimea. A Kerc esiste la "Casa d'Amicizia Tavrika", dove ogni associazio- ne nazionale registrata della città ha una sua cameretta. È qui che i pochi italiani sopravvissuti e i loro discendenti si riuniscono per continuare la lotta per il pro- prio diritto all'italianità. Dispersi nell'Europa che coc- cola le sue differenze e chiude gli occhi sulla fame di "italia- nità" di chi è stato ingiustamen- te cancellato dalla cittadinanza tricolore, loro non demordono! Sono pochi e sono stanchi di promesse non mantenute. Sono italiani fino all'ultimo cromoso- bie della storia le loro storie. Sono italiani scomodi che vo- gliono vivere in Europa nel no- me della loro italianità e delle loro tragedie, provocate sempli- cemente dalle scelte politiche e dalla coscienza di politici dal cuore miope. Se oggi qualcuno cita la città di Caffa, probabilmente nessuno saprebbe ricordarne la colloca- zione e men che meno saprebbe ricordarne le origini. Eppure appartiene a una fetta gloriosa di storia italiana, questa città fon- data sulle rive del Mar Nero dai sudditi della Repubblica di Ge- nova. Una città italiana in Cri- mea. Caffa rappresentava un viva- ce angolo genovese sulle rive del Mar Morto. Della città geno- vese oggi rimangono i resti all'interno del perimetro urbano di Feodosia, ma proprio l'antica presenza marinara legittimò forse nel 1830 e nel 1870 le due ondate migratorie italiane. A scegliere l'avventura in Crimea furono soprattutto agri- coltori, marinai e addetti alla cantieristica navale e la città ful- La crisi in Crimea ha riportato alla ribalta la realtà, ignorata per decenni, degli italiani lì emigrati all'inizio del '900 non riconosce loro neanche una risposta alle lettere accorate per tornare in possesso dell'antica cittadinanza e per veder ricono- sciuto lo status di deportato poli- tico. A ricordare il sacrificio degli italiani in Crimea c'è una lapide posta nel Parco Valsesia di Mi- lano a cura del Comitato della Foresta mondiale dei Giusti. Nessuna lapide ricorda le fami- glie pugliesi emigrate in Crimea e dissolte per mano di Stalin. E nessun governo vuole rico- noscere ufficialmente la depor- tazione degli italiani di Crimea (al contrario di quanto accade per i Tartari, i tedeschi, i Bulgari, gli Armeni e i Greci), permettendo così ai discendenti un riconoscimento innanzitutto etico e poi economico per le sof- ferenze subite senza nessuna colpa al di fuori dell'italianità. Italiani di Crimea: storia di una comunità dimenticata (anche in Italia) GeNeRoso D'AGNese ma, ma devono vivere con un passaporto diverso. Amano l'Italia perché da lì partirono i loro avi, odiano l'I- talia che si è dimenticata di loro e delle loro traversie. Sperano ancora, sperano flebilmente: la storia forse si ricorderà di loro prima che l'ultimo venga portato via dalla morte. Combatteranno per i loro diritti, finché avranno il fiato in gola. Gli italiani emigrati in Crimea e deportati durante l'ulti- mo conflitto mondiale in Russia, Kazakhistan e Usbekistan, ven- gono viste dalle istituzioni italia- ne quasi con fastidio, nella spe- ranza che il silenzio della morte porti via la voglia di battersi per un diritto negato dall'evidenza della Storia. Quella degli italiani di Crimea è una storia dolorosa, segnata da ferite che stentano a chiudersi, nonostante la chiara volontà di disperdere nelle neb- cro di tale spostamento divenne Kerc, costruita sullo stretto omo- nimo che congiunge il Mar Nero con il Mar d'Azov. Nel 1840, 30 famiglie italiane costruirono e consacrarono una chiesa cattoli- ca romana (progettata dall'archi- tetto Alessandro Digbi) la cui lapide commemorativa, scritta in italiano e latino, fu distrutta dal regime stalinista negli anni '30 del Novecento. Italiani provenienti da Mol- fetta, Trani, Bisceglie, Bari for- marono una comunità stimata intorno alle duemila unità, rin- novando un legame che già si era creato nel XVI secolo, attra- verso le migrazioni dalla Cam- pania e dalla Liguria. E tra loro vi era perfino un nipote di Giu- seppe Garibaldi, fucilato negli anni '30. Incoraggiati dal governo zari- sta che inviava emissari in Eu- ropa Occidentale, gli italiani si stabilirono anche a Simferopol a Feodosia e in altri porti del Mar Nero e del Mar d'Azov. Nei pri- mi del '900 essi ammontavano a 4000 unità, costituivano il 3% della popolazione, avevano anche una scuola elementare e media, un circolo ricreativo e la biblioteca. Una colonia unita e prospera dedita alle attività ma- rittime nella flotta peschereccia o nella flotta del Mar Nero. Una presenza scomoda per il regima stalinista che nel 1939 impose la cittadinanza sovietica agli emigranti italiani che ancora non erano rientrati in Italia. Qualcuno riuscì a fuggire, ma la maggior parte rimase bloccata in quella che sarebbe diventata una vera trappola politica. Per 2000 emigranti si aprirono le porte del kolkos "Sacco e Vanzetti", nel quale arrivarono anche fuoriu- sciti antifascisti pronti a cate- chizzare la piccola comunità tri- colore. Tra essi figura Pietro Robotti, cognato di Togliatti. Fu proprio Robotti ad ottenere la chiusura della scuola e della Chiesa e l'espulsione del parroco italiano. Nel gennaio 1942, dopo la "liberazione" di Kerch da parte dell'Armata Rossa tutti gli italia- ni, anche le famiglie miste, ven- nero deportate, dai lattanti ai vecchi. Costretti a radunarsi in sole due ore e portando con sé solo otto chili a testa di effetti personali, furono concentrati a Kamysch Burun, sobborgo di Kerch e imbarcati nelle stive per la traversata dello stretto, poi in vagoni piombati fino a Bakù, fatti attraversare il Mar Caspio, poi ancora in vagoni piombati fino in Kazakistan. Alcuni (come la famiglia De Martino) arrivarono a Kolyma sul Mar Glaciale Artico, altri nell'arcipe- lago delle Solovki (come ad esempio Giacomo Pergolo e Bartolomeo Evangelista). Metà di loro (soprattutto vec- chie e bambini) morirà durante il tragitto di stenti, di fame, per i maltrattamenti. Un altro terzo muore in Kaza- kistan per il freddo e per la fa- me. E tutti spariscono dalla sto- ria italiana…inghiottiti dai gulag o da città come Karaganda, da cui era impossibile entrare e uscire senza permessi speciali. La morte di Stalin permise a qualcuno di tornare, ma la libertà arrivò solo con Krusciov: dei 4000 emigranti stivati nei treni piombati soltanto 200 rien- trano in Crimea per constatare che tutti i loro averi erano stati confiscati dallo Stato. All'ulti- mo censimento 365 persone in Kazakistan hanno dichiarato la nazionalità italiana. Altri si sono sparsi in Russia e perfino in Uzbekistan. Agli italiani di Crimea furono sottratti tutti i documenti, com- presi i passaporti italiani, e neanche la caduta del comuni- smo è riuscita ad alleviare le sofferenze di questa diaspora volutamente dimenticata da tutti. L'ambasciata italiana di Kiev ricordano tutti i giorni con i loro drammatici e disperati sbarchi sulle coste italiane. Fatichiamo però a immedesimarci, a ricono- scerci nei loro viaggi in balia del destino. Eppure, tanta parte della sto- ria del popolo italiano passa proprio da emigrazioni e sgom- beri forzosi che hanno spesso cancellato le radici linguistiche, culturali, comunitarie nazionali. Si va dalle grandi povertà di ieri ai picchi di disoccupazione di oggi che deprivano città e regioni di popolazione produtti- va, di manodopera e di quelli che ora si chiamano cervelli. Si abbandona la penisola per mer- cati lavorativi più prosperi, si finisce per impoverire di poten- zialità il territorio italiano, ma anche per assimilarsi nei luoghi di adozione dai quali difficil- mente si torna indietro. Si va dalle deportazioni di massa di memoria bellica alla cancellazione della memoria di questi sradicamenti sociali, che finisce per colpire due volte chi ha già subito il torto di essere cacciato da casa propria come è successo agli italiani di Crimea di cui parliamo in questa edizio- ne o agli istriani e dalmati che durante la Seconda Guerra Mondiale furono costretti all'esodo e a lasciarsi dietro tutto, di cui rac- conteremo nella prossima edi- zione de L'Italo Americano. Perchè riflettere su questi pezzi di storia italiana cancella- ta? Per ricordarci che, anche quando è volontaria, l'emigra- zione è uno strappo, una ferita latente, un taglio che se da un lato è figlio naturale della glo- balizzazione, dall'altro è una lenta emorragia, una dispersio- ne di ricchezza culturale. Non c'è accezione obbligatoriamente negativa in questo cambiamento di orizzonti, ma talvolta succede e quando accade è come veder bruciare un libro: si perdono pagine che raccontano chi siamo, da dove veniamo e per- chè siamo quello che siamo. Storie scomode che raccontano l'identità di un popolo Continua da pagina 1