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GIOVEDÌ 24 NOVEMBRE 2016 www.italoamericano.org 34 L'Italo-Americano ITALIAN SECTION | Angelo J. Di Fusco, CPA Tax preparation & planning Financial statements & accounting Financial planning & budgeting Quickbooks professional advisor & small business consulting Let's team up to cut your taxes 25 years experience Parliamo italiano 818/248-9779 www.difusco.com HERITAGE MEMORIA IDENTITÀ STORIA RADICI Significati sedimentati che con il tempo finiscono per 'squalificare' il villano LUIGI CASALE Q uando, durante la grande rivoluzione sociale e cul- turale degli anni '60 del secolo scorso, si predicava la ricerca di una certa autenticità, nel linguaggio come nella vita, e si voleva che il più acuto senso critico tutto mettesse in discus- sione, per recuperarne valori ideali insieme al senso vero delle cose (alias: il recupero del senso delle parole), una scuola di pen- siero (pedagogico) pretendeva mostrarci come liberarsi dai pre- zazioni. Niente altro che superare il pregiudizio attraverso un distil- lato di buona lingua (come cerco ancora di fare oggi). Era la lingua riscattata, quella adottata specialmente dai poeti del Novecento. Chi non era poeta, rifuggendo dall'utilizzo della figura retorica dell'analo- gia, prese l'abitudine di usare il "cioè". Fino … alla nausea. Allora le domande che noi giovani ponevamo (e non sempre trovavano risposte congrue) erano: perché tra "alto" e "basso", in mancanza di una più vigile codifica, il primo è conce- pito come positivo e l'altro inve- ce come negativo? E perché tra "grande" e "piccolo", il primo era connotato positivamente e il secondo negativamente? Tra "bianco" e "nero". Il bianco era il buono e il nero il cattivo? E la stessa cosa valeva tra "vicino" e "lontano", o tra "aperto" e "chiu- so". E potremmo aggiungere tra "positivo e negativo". O anche tra "cielo e terra". "Acqua e fuoco". In effetti, prima ancora di cogliere la portata del segno lin- guistico, se ne immaginava la "connotazione"; e questa, poi, veniva assolutizzata. Cosa che non avviene, o, per lo meno, è meno probabile che, con le cop- pie di parole: bello e brutto, o buono e cattivo. In cui il giudizio di merito (la connotazione) è già implicita tra i tratti semantici che ne formano la "denotazione". È la stessa definizione delle parole che comporta l'opposizione semantica (che potremmo dire di carattere "morale"). Mentre per le precedenti cop- pie di parole l'implicazione di merito è frutto di una sovrapposi- zione di significato determinata dall'uso (connotazione), e, in un certo senso, assorbita anche dal livello denotativo del significato. Per intenderci, è come se nero da "contrario di bianco" andasse a significare "meno bello di bian- co". Quindi, in assenza di una coerente "trasparenza linguisti- ca", si creava un vero pregiudi- zio. E, una volta consolidato que- sto pregiudizio, sedimentato e strutturato, diventava un nuovo tratto semantico della parola usata. Praticamente ne modifica- va la denotazione. Ed è quello che è successo agli aggettivi: urbano e villano. Prima di renderci conto di che cosa sia "urbano" e che cosa sia "villano", già ci prefiguriamo che urbano sia "meglio" di villano. E oggi, per effetto dell'antonomasia nell'accezione comune, urbano è, infatti, la persona di buoni com- portamenti, mentre villano è colui che, non conoscendo le conven- zioni della buona creanza, mostra comportamenti non nor- malizzati (cattivi!). Allora per meglio capirci ci giudizi, e per far ciò ci mostrava schemi interpretativi della lettura di determinate parole, di cui l'uso, ormai inflazionato, aveva modificato il significato solito, fino a stratificarne altri del tutto nuovi e completamente diversi. Ci avevano insegnato a scorti- care quei significati che si erano calcificati sopra le parole, e a metterne a nudo quelli originari, veri e impliciti, gli etimi, per sco- prirne i cosiddetti tratti essenziali, sui quali il nostro giudizio sem- brava miope; e si preferiva stig- matizzare il senso vago delle generalizzazioni e delle banaliz- conviene risalire all'origine, e fare la storia delle parole. Partendo dalle parole latine "urbs" (città) e "villa" (fattoria) – da cui derivano i due aggettivi "urbanus" e "villicus", in seguito "villanus". Urbs è la città orga- nizzata (insieme di abitazioni, di popolazione, e di leggi); "villa" è la casa di campagna, la fattoria agricola (che può essere dimora della famiglia e insieme azienda agricola). Così urbano è il citta- dino, e villano è il contadino. Perciò, dopo questa precisa- zione, chi direbbe che la città è migliore della campagna, senza definire prima rispetto a quale indicatore si intende fare il con- fronto? Invece è successo che il citato fenomeno dell'antonomasia (che rientra anch'esso in quel mecca- nismo della lingua che gioca sul trasferimento di significato che abbiamo chiamato metafora) ha fatto sì che alla connotazione di carattere geografico si sia sovrapposta quella di carattere sociologico, passando poi a quel- la di carattere morale. Così la connotazione (il significato aggiunto dall'uso) di urbano è diventata "positivo", "buono"; e quella di villano, "negativo", "cattivo". E i "vigili urbani" sono vera- mente sempre "urbani"? O, fra essi, ce ne sono anche di "villa- ni"?