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www.italoamericano.org 11 L'Italo-Americano IN ITALIANO | GIOVEDÌ 13 LUGLIO 2017 I miei nonni rovesciarono in me tutta l'Italia che non erano riu- sciti a far entrare nei loro figli. Agli altri parlavano un inglese stentato, ma con me, il primo nipote, sempre il loro italiano, quindi sono diventato l'unico che potesse capirli. Quando si avvici- narono alla pensione, io fui inca- ricato di badare a loro in quelle rare occasioni in cui i miei geni- tori non erano nei paraggi. Ero il loro assistente che gestiva le fac- cende e prolungava le loro possi- bilità: la mia vita era diventata un tirocinio nei modi in cui pensava- no, nei modi in cui sentivano e nei modi in cui facevano le cose. I loro modi di fare e di essere sono stati sempre spiegati più attraverso storie che istruzioni dettagliate. Il nonno era un immigrato che non era mai realmente arrivato, uno che portava il peso del suo passato ovunque andasse, un peso che lo rallentò nell'America moderna, in rapido movimento, della televisione e degli astronau- ti. Qualunque cosa di Italia io abbia avuto nella mia giovinezza, è venuta da lui. Lui rifletteva la doppia immagine del mio patri- monio italiano: una di orgoglio e una di imbarazzo, immagini che si combattevano costantemente l'una con l'altra. Il suo inglese stentato mi sconvolgeva, specialmente quan- do mi diceva "parlare io a te", mentre ero con i miei amici ame- ricani non italiani, quelli che chiamava "mericani". Il suo ita- liano, quella strana lingua che usava quando era spinto ad un punto molto emozionante di una discussione, quando ricordava i vecchi amici, o quando non vole- va che i bambini capissero quello che stava dicendo, mi ha sempre incantato. La sua lingua era solo uno dei modi in cui era in con- flitto con l'America in cui stavo crescendo. A colazione stava curvo su una ciotola in ceramica piena di pezzi di pane vecchio, quello che la signora Rossi usava per lan- ciarlo agli uccelli nel suo cortile. Guardavo con incredulità mentre versava il caffè caldo sopra il pane e poi aggiungeva il latte scaldato e lo zucchero alla miscela. Poi lo mangiava! Mentre mangiava, io raccoglievo il coraggio di far cadere i corn flakes nella mia ciotola blu Tupperware e poi di mangiare la prima colazione americana che avevo imparato dalla televisione. Mi offriva un assaggio del suo preparato, che io rifiutavo in modo rude per il suo divertimen- to. Quando guardavo nel suo sor- riso perdevo l'immagine che avevo avuto di lui quando prima lo avevo visto versare il caffè sopra il pane vecchio. In quella vicinanza amavo, ma non capivo l'immigrato. Il nonno non ha mai usato i prodotti che io pensavo fossero essenziali per la vita americana. Si vantava di non aver mai usato shampoo o dentifricio e tuttavia era riuscito a mantenere una testa piena di bei capelli e una bocca priva di otturazioni. Ero sorpreso, poiché all'età di dieci anni avevo già notato la forfora e avevo fatto visita al dentista più di quanto non avesse mai fatto nei suoi settant'anni di vita. Preferiva far crescere le sue verdure, mentre io ero affascina- to dalla facilità di raccogliere pomodori immacolati e grandi e altri prodotti ordinatamente impacchettati nella plastica sugli scaffali del supermercato, ed ero frustrato dalle ore passate con lui nel suo giardino, sudando per produrre qualche pomodoro e peperone, o per seguirlo attraver- so i campi delle riserve della foresta, per raccogliere tarassaco e far cadere giù i funghi dagli alberi. La nonna era sempre il centro dell'attenzione durante la prepa- razione dei pasti della domenica pomeriggio. Governava la cucina e dava ordini alle donne della nostra famiglia. Ma mentre mangiavamo, la mia attenzione si rivolgeva sem- pre al nonno. Mi affascinava per come usava il pane tra le dita per raccogliere la salsa che scivolava via dagli spaghetti, per come succhiava le ossa del collo fino a quando non erano senza carne e asciutte. Poteva farmi dimenticare che avevo cibo davanti a me. Era un mangiatore rumoroso, ma i suoni che faceva erano quasi impercet- tibili nel vociare alto della tavo- la. Versava l'insalata di tarassaco verde amaro ballando intorno al tavolo e lasciandola cadere nei piatti, poi tornava al suo posto, abbracciava l'enorme ciotola di legno con un braccio e ammuc- chiava forchettate di verdure in bocca. Quando la tempesta del pasto era passata, si sedeva e fumava una sigaretta non filtrata, spesso con la punta illuminata in bocca. Magia! Il nonno non ha mai imparato a leggere o scrivere e io mi senti- vo così importante quando mi ordinava di leggere qualcosa per lui. Ero l'americano che non sarebbe mai potuto essere. Ero la prova che le sue speranze di "far- cela" in America erano state sod- disfatte. Il nonno non mi disse mai perché aveva lasciato l'Italia e raramente parlava della sua infanzia. Credo che pensasse che fosse abbastanza essere in America e che tutto quello che era stato prima non facesse alcu- na differenza nella sua nuova casa. Dopo la morte, le cene di domenica non furono più le stes- se. Con lui furono sepolte molte delle tradizioni italiane che la nostra famiglia aveva seguito al suo comando. Senza la sua influenza, gli italiani sono diven- tati estranei in un collage di immagini mediatiche: mangiatori di polpette speziate, gangster di padrini e buffoni melodrammati- ci. Ma lui mi ha lasciato con la curiosità di quello che era il "vecchio paese". Un giorno, l'anno prima di morire, lui e io eravamo su una spiaggia nel sud California. La nostra famiglia era andata a casa di mio zio Pasquale dopo il fune- rale di mio padre. Il nonno si era seduto sulla sabbia, a fissare il riflesso del sole sulle onde. Aveva detto: "Questa spiaggia è come Monopoli" (una città costiera vicino a Castellana Grotte nell'Italia sudorientale dove è nato). "Un giorno tornerò a Castellana." Non disse altro per il resto della giornata. Rimase in silenzio per ore, come se fosse in trance. Era uno sguardo che non avevo mai visto prima e mi spa- ventò. Lo coprii di sabbia e lui rimase lì fino a che la marea non gli lavò via la sabbia. Si scottò molto ma non sembrò preoccu- parsene. Era stato in Italia duran- te quelle ore. Erano passati più di cinquant'anni da quando aveva visto la terra da cui proveniva. Ogni volta che ho immaginato il nonno dopo la sua morte, era con il sorriso triste che aveva in fac- cia quel giorno in spiaggia. Mentre dirottavo le mie ener- gie verso la ricerca di un'istruzio- ne e i piaceri di essere adolescen- te, i ricordi del nonno si indeboli- rono. Ho spesso perso la mia famiglia nel mio crescente disin- canto sulla via americana. Alla fine degli anni '70 decisi di stare lontano dalla famiglia il più pos- sibile. Programmai un viaggio in Europa per visitare amici in Danimarca e in Svezia. Avendo raccolto indirizzi, pensai che poteva essere interessante visita- re l'Italia per qualche giorno, se avessi avuto il tempo. La nonna aveva mantenuto i contatti solo tramite i biglietti di Natale con "l'altra famiglia" a Castellana Grotte. Aveva l'indirizzo del fra- tello del nonno e gli scrissi. Quando partii, non avevo ricevu- to una risposta e mi chiesi se avrei dovuto preoccuparmi di fermarmi a Castellana. "Il nonno era un immigrato che non era mai realmente arrivato, uno che portava il peso del suo passato ovunque andasse, un peso che lo rallentò nell'America moderna, in rapido movimento, della televisione e degli astronauti". Sketch by Lila Quintero Weaver Una generazione rimossa Nota dell'autore: questa è la prima parte di una storia in serie che racconta il mio ritorno in Italia e il viaggio di mio nonno negli U.S. LA VITA ITALIANA TRADIZIONI STORIA CULTURA