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GIOVEDÌ 25 SETTEMBRE 2014 www.italoamericano.com 14 L'Italo-Americano ITALIAN SECTION | Berkeley e la California secondo Emilio Cecchi, visiting professor nel 1930 Oltre ad essere un critico let- terario, un critico d'arte, uno scrittore, un giornalista, Emilio Cecchi era anche un consumato ed appassionato viaggiatore. Quando nel 1930 l'Università della California di Berkeley lo invitò a trascorrere un anno presso il Dipartimento di Arte, a insegnare cultura ita- liana in qualità di visiting pro- fessor, non ebbe tentennamenti e partì. Dai viaggi, del resto, il letterato fiorentino traeva forag- gio per le sue memorabili prose di Papini, Prezzolini, Soffici e tanti altri; un florilegio di riviste culturali che ospitavano scrittori di ogni estrazione, poeti, circoli letterari, caffè, le prime tradu- zioni dei grandi contemporanei europei… è da questo fermento che sbuca Emilio Cecchi, e da questo micromondo così denso, concentrato di arte e storia che s'invola verso la lontanissima San Francisco. Le esperienze di quell'anno trascorso negli Stati Uniti sono raccolte e conservate nelle pagi- ne di America Amara (1939); titolo fuorviante, perché in realtà privo di alcuna connota- zione negativa: alla solita, superficiale e trita polemica sulla civiltà dei consumi, Cecchi preferisce un ritratto vivido e poetico del Nuovo Mondo; un ritratto composto da una serie di riflessioni sui luoghi e sui perso- naggi più disparati che lo scrit- tore ebbe modo di conoscere durante il suo anno lontano da casa. Lo stile adottato da Cecchi è quello usuale della sua prosa d'arte: elegante, ricercato, alleg- gerito da un perenne, soffuso velo d'ironia, da un mezzo ghi- gno un poco beffardo. Nelle pagine divertentissime in cui descrive la vita universitaria degli studenti di Berkeley (ma la penna di Cecchi non risparmia certo neanche i colleghi), il fio- rentino rende pieno merito alla sua terra d'origine, privilegian- do un taglio neanche troppo velatamente canzonatorio: "Le cerimonie dell'immatri- colazione s'erano svolte in un'aura che direi quarantottesca, perché goliardica sbracataggine di quello stampo noi non potremmo concepirla che rifa- DARIO MARCuCCI cendosi ad Arnaldo Fusinato. Con i cappelli rivoltati, la cami- cia fuori dei calzoni, oppure ignudi fino alla cintola, i matri- colini erano costretti a lunghe genuflessioni, e a baciar l'asfal- to davanti al cancello universita- rio… tante sono le strade per arrivare alla saggezza". Il letterato raffinatissimo, che ha ricevuto i natali dalla culla del Rinascimento, motteggia i suoi nuovi, agiati studenti della rinomatissima e moderna Berkeley, come forse solo un salace maestro del contado toscano potrebbe, in qualche scuola elementare persa nella campagna di Scandicci o San Casciano: "Rozzi, ispidi ma docili, e non di rado sgobbon- celli. Scarso senso critico. Nessuna curiosità indipendente. Nell'appoggiarsi alle cose stu- diate, l'assolutezza di chi com- peri un cavatappi d'ultimo modello, e farebbe i più invele- niti reclami alla ditta se poi il tappo non esce". Le bordate più divertite, però, sono destinate alle ragazze californiane: "Il gergo americano ha una vasta scala d'appellativi per le ragazze. Ma quando corrono così attruppate, uguali, scodin- zolanti, e sotto gli alberi fanno ressa davanti alle classi, non c'è da esitare: allora, come le chia- mano con un vocabolo che sa di sole e di fieno, allora son pro- prio: heiferettes, le vitteline". Altrove, in un surplus metaforico e immaginativo, le paragona alle mele sul banco del fruttivendolo; di quelle mele californiane, belle a vedersi, luminose e colorate, tutte uguali però, e ad assaggiarle poco saporite. Poi, in capoversi spas- sosissimi si arriva a raccontare gli sforzi di studio di questi gio- vani studenti di cultura italiana a Berkeley: "Sono inclini a imparare: riguardo almeno ai dati di fatto; non so quanto in materia di gusto. Perché e come l'Eva di Masaccio sia un tremendo capo- lavoro, mostravano di capirlo. Ma se un insegnante avesse spiegato che quella è invece una meschina pittura, forse l'avreb- bero creduto, indifferentemente. […] Era una strana impressione, quando pronunciando la prima volta uno dei nostri grandi nomi: Giotto, Masaccio ecc., si sentiva che mai lontanamente l'avevano udito ricordare. Provavano a ripeterlo, atterrite: Ciotto, Ciotto…" Ma in tutto questo carnevale, così distante dalle radici della cultura che andava insegnando, e direi anche nonostante tutto questo, Cecchi riesce a intrave- dere un candore nei suoi nuovi studenti, una schiettezza e uno slancio in cui riconosce i valori dell'America nella sua interez- nobiliari e la regia assoluta di quel che avveniva nel resto della penisola. Per il Piemonte è la fine di un'epoca di grandi risultati e di forte impegno per raggiungere l'unificazione terri- toriale. Per Torino si prospetta una progressiva marginalizza- zione dalla scena politica pro- prio mentre si investiva per costruire il ruolo dominante nel settore economico-produttivo, da futura metropoli industriale. Il 21 settembre del 1864 la tensione esplode: ci sono accor- di segreti con la Francia sul tra- sferimento della capitale a Firenze che vengono divulgati e fanno gridare al tradimento. I torinesi, ricordando i sacrifici e il sangue versato durante il Risorgimento, si sentono traditi dallo Stato italiano che, appena nato, voleva privare Torino del ruolo di capitale. Un governo inesperto dà ordine alla polizia di assaltare i manifestanti. Allota una folla ancor più numerosa si scontra con due squadroni di carabinieri che aprono il fuoco sulla gente iner- me: morti e feriti, anche tra chi era seduto al caffè. Nottetempo il governo, temendo la guerra civile, fa affluire a Torino 20.000 soldati. L'indomani, 22 settembre, Torino è in stato d'assedio. Di nuovo i carabinie- ri aprono il fuoco indiscrimina- tamente. In due giorni si conta- no 55 morti e 133 feriti. Il 28 settembre cade quel governo ribattezzato "dell'assassinio" ma prima dirama un comunica- to in cui si dichiara che a Torino la plebaglia armata aveva aggredito i soldati, costretti a sparare per difender- si. La stampa italiana accredita quella versione e stigmatizza l'egoismo dei torinesi, poco patriottici, che non volevano rinunciare al ruolo di capitale. Sarà poi il trasferimento del re Vittorio Emanuele, il 7 febbraio 1865, a rendere ufficiale lo spo- stamento a Firenze. Da Torino a Firenze: 150 anni fa si spostava la capitale italiana Continua da pagina 1 d'arte, e considerando pure che da tempo desiderava visitare il Messico, l'occasione era davve- ro ghiotta e imperdibile. Cecchi s'era formato in quel- la Firenze che, all'epoca, era l'indiscussa capitale letteraria d'Italia. Era la Firenze de La Voce e de La Ronda, di Solaria, Emilio Cecchi è considerato una delle figure di maggior rilievo per il giornalismo culturale italiano della prima metà del Novecento Cecchi (ultimo a destra) con i poeti Cardarelli e Ungaretti (Ph. Olycom) za. La sua esperienza di profes- sore, infine, si rivela piena e appagante, come forse in nessun altro luogo sarebbe stato possi- bile. La California, terra così giovane e pratica, priva di fron- zoli, può forse accostarsi all'arte italiana in modo tanto diretto, privo di quel passatismo e delle scorie del tipico intellettualismo europeo. Per il letterato fiorenti- no è quasi una rivelazione: in questo spirito così ingenuo, che è l'anagramma di genuino, Cecchi proclama d'aver trovato ciò che forse esiste di più pre- zioso per un insegnante: "Una ragazza un giorno m'interruppe, mentre illustravo un' Annunciazione: - Quale dei due è la Vergine e qual è l'Angiolo? Eppure l'Angiolo spiegava le sue ali di farfalla. E la Vergine, come tutte quelle d'Ambrogio Lorenzetti, era formosa, amoro- sissima. Provai un senso estati- co. Alla fine ero nel deserto. E su codesta tabula rasa forse sor- gerebbero, inimmaginabili, i miti di domani".