L'Italo-Americano

italoamericano-digital-9-25-2014

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GIOVEDÌ 25 SETTEMBRE 2014 www.italoamericano.com 23 L'Italo-Americano ITALIAN SECTION | Una lettrice ci scrive e il nostro esperto in parole le risponde Caro signor Casale, leggo con interesse la sua rubrica settimanale su L'Italo Americano. Anch'io sono appas- sionata di parole. Vivo in California da tanti anni, ma la lingua italiana non si dimentica (parlo, leggo, scrivo e faccio regolarmente parole crociate come su la Settimana Enigmistica, Domenica Quiz, Quiz Mese, ecc.) ma mi dolgo delle inconsistenze nella nostra bella lingua. Mi lamento delle incongruità della lingua inglese (ad esem- pio: i numerosi modi di pronun- ciare "ough"), ma quelle dell'italiano continuano a osses- sionarmi. Nella sua rubrica lei ha affrontato il pronome "gli", che apparentemente è diventato pro- nome universale per maschile, femminile, singolare e plurale. Io mi ribello! Questa non è la grammatica che io ho imparato a scuola. Mi rifiuto di continua- re a smontare la mia lingua: per "ad essa", accettabile o no, con- tinuerò a usare "le" e non "gli" (ricordar-le, non ricordar-gli). Anzi, continuerò, come si diceva giustamente per il plurale "ad essi", "ad esse", il pronome "loro" (dare "loro"). Lei ha scritto di "loro", recentemente, ma al sostantivo. E più incongrua di questa è difficile trovare: il gerundio la cui desinenza è are, è ando; per quelli la cui desinenza è ere, è endo. E allora, perché il gerun- dio dei verbi con desinenza ire non è indo ma endo? Recentemente, me ne è stata buttata in faccia un'altra. In una email a mia nipote a Roma, le dicevo di un recente terremoto che registrava 5.4 gradi di magnitudine sulla scala Richter. Lei si è affrettata a correggermi. Non si dice magnitudine, si dice magnitudo. Incredibile! Se si dice latitudine, longitudine, alti- tudine e persino pulcritudine, perché non c'è la traduzione da magnitudo a magnitudine? Persino in inglese c'è la con- sistenza di dire magnitude (mag- ni-tud), come altitude, ecc. e persino pulchritude! Ce ne sono altre che mi danno fastidio ma non la voglio disturbare oltre. Continui a scri- vere Questione di parole. E gra- zie. Anna Bondì (Ann Signett) LuIGI CAsALE Gentilissima Signora Anna, grazie della lettera e delle belle parole. Lei fa bene a non lasciarsi suggestionare dalle cose che dico. E a non cambiare il suo comportamento linguistico. Farei lo stesso anch'io. Anzi le confer- mo che già lo faccio nei confronti di chi vorrebbe farmi modificare il modo di parlare o di scrivere. La lingua è un qualche cosa di profondo che ci caratterizza: qualcuno ha detto che essa è il Dna attraverso cui sarebbe possi- bile ricostruire tutta la nostra sto- ria personale. Nello stesso tempo essa è, più semplicisticamente, anche lo strumento per comunicare. E lei sa che si comunica meglio, in maniera univoca e inequivocabi- le, se i segni del codice usato, per quanto convenzionali, sono uniformemente riconoscibili: cioè se sono gli stessi per tutti. Questo tipo di lingua unifor- me e diffusa, i tecnici la chiama- no "standard". Perciò, quando parliamo, più siamo vicini allo standard, maggiori sono le garan- zie di capire e di farci capire nell'area dei parlanti a cui ci rife- questi assiomi, tralasciando per ora le questioni psico-pedagogi- che dell'apprendimento: 1) la lingua la fanno i parlanti attraverso la normale pratica della comunicazione orale; 2) le grammatiche e i diziona- ri la descrivono nello stato di fatto in cui essa si trova (come se la fotografassero); 3) come notiamo alcune diffe- renze quando confrontiamo due foto della stessa realtà, fatte in due momenti diversi; così con la lingua. Se prendiamo due pagine di scrittura di epoche diverse, o due dizionari oppure due gram- matiche, anche per la lingua noteremo che ci sono differenze nella fonetica, nella morfologia, nella semantica, nella stilistica, nella stessa organizzazione del discorso. Con la fondata speranza di non tediarla con questi discorsi astratti e forse un po' massimali- sti, la saluto cordialmente. Confidando, nella sua fedeltà alla rubrica, che ha come unico scopo quello di porre problemi (e ren- dere così sempre più trasparente la lingua che utilizziamo). QUESTIONE DI GRAMMA- TICA - Voglio però prendere spunto dalla lettera della signora Anna ed esaminare in maniera puntuale le questioni da lei indi- cate, intorno alle quali sembre- rebbero esserci "inconsistenze" o "incongruenze". E rivolgermi alla generalità dei lettori. Per non dovermi ripetere tra- lascio le questioni che hanno fatto oggetto degli articoli già pubblicati. Tuttavia, prima di esaminare le altre situazioni sollevate dalla gentile lettrice, vorrei semplice- mente ricordare – questo sì, non mi stancherò di ripeterlo – che la "grammatica", alla quale la signora di riferisce, cioè "quella che ho imparato a scuola", non è un codice morale, bensì la descri- zione, la sistemazione teorica delle "regole" di comportamento che i parlanti di una determinata lingua applicano nella pratica della loro comunicazione mediante le parole. La grammatica, quindi, è "estratta" dagli atti linguistici: essa "sta" nella lingua – è vero! – ma, prima ancora, sta nella testa dei parlanti (se non proprio in forma di regole, almeno come capacità di far funzionare la lin- gua in maniera di sentirsi integra- ti nel gruppo sociale: ciò che si chiama competenza). Non vorrei dire una scioc- chezza, ma questa teorizzazione è di autori americani. Ne è prova il fatto che i bambini a tre anni par- lano, e parlano in maniera com- pleta e bene, senza studiare la grammatica. Se hanno la fortuna di esprimersi in un contesto di ottimo standard (il modello dell'area dei parlanti) possiede- ranno una lingua "corretta", come si dice con un'espressione che a me non piace. Preferisco dire: "possiedono una lingua in cui competenza (usare la morfo- logia e la sintassi) e pertinenza (saper scegliere le parole appro- priate) siano al massimo grado nei "testi" linguistici da essi pro- dotti". Diversamente avranno una lingua deprivata: uno standard limitato, conseguenza di un modello scadente. Successivamente a fare giusti- zia, ad offrire migliori possibilità, ci penserà la scuola, poi la lette- ratura, poi la frequentazione di ambienti specializzati (i modelli) come teatro, conferenze, vita associata, ecc. LE-GLI-LORO - Detto que- sto, passo ad esaminare le singole questioni. A proposito di gli e le, io mi regolo così: utilizzo le se sono sicuro che l'interlocutore sappia riconoscere questo pronome e lo sappia usare. Se no, uso gli sia per il maschile che per il femmi- nile. Quanto a loro, mi pare che questo pronome personale (anti- co genitivo latino che originaria- mente significava "di essi"), venga usato come pronome per- sonale quando dico: "ho detto loro" (ad essi); e come aggettivo o pronome possessivo quando dico: "è un loro modo di fare" (di essi), oppure: "il libro è loro" (di essi). E c'è ancora un terzo modo di usarlo: come soggetto nelle terze persone plurali del verbo; es.: "loro hanno fatto" (come plurale di "lui"). Tutte soluzioni che si possono tranquil- lamente accettare. GERUNDIO - Passiamo al gerundio. È vero che in italiano vi sono tre modelli di coniugazio- ni: quella in –are, quella in –ere, e quella in –ire. Però il gerundio non si è formato per un meccani- smo analogico sulla base della desinenza dell'infinito, ma non è altro che la forma del gerundio latino trasformatosi nei secoli secondo delle linee di tendenza che esistono nella lingua stessa, cioè nel comportamento dei par- lanti. E qui mi devo fermare, pur- troppo. Solo vorrei aggiungere che applicando il ragionamento della signora Anna, dovremmo spie- garci anche perché (ma c'è chi se lo spiega!) l'imperfetto del verbo essere diventa io ero, tu eri,... noi eravamo,... essi erano; oppure perché dal verbo cuocere, viene il participio cotto. TERMINI TECNICI - E veniamo all'ultima: magnitudo. Non c'è nessuna meraviglia se gli studiosi di quella disciplina hanno scelto di indicare "la scala di grandezze" dell'intensità dei terremoti con una parola latina invece che con una parola italia- na. Si tratta di un termine tecni- co. In fisica molte grandezze hanno addirittura il nome degli scienziati. C'è un precedente: "libido". Voglio concludere citando una frase di una famosa glottolo- ga, Celestina Milani, che potreb- be essere applicata a tutte le altre realtà, al di fuori della lingua: "Di ogni fenomeno linguistico esiste una causa; ma non sempre la conosciamo". riamo. Se poi mi accorgo che sto usando un segno che non è dello standard, cioè che è diverso dal segno che usa la maggior parte dei parlanti della mia area comu- nicativa, non potendo pretendere che siano tutti gli altri a modifi- care il loro, mi adatto, mi rasse- gno a modificare il mio. Ma non per moda o per piaggeria, sempli- cemente per necessità. Lei mi dirà: ma come succede che un segno che ha funzionato per tanti anni, e che forse ancora continua a funzionare, alla distanza si trasformi? Francamente non saprei rispon- derle se dovessi attingere soltanto ai miei convincimenti personali, perciò – nella risposta che pure sono costretto a darle – devo rifarmi al principio generale, uni- versalmente riconosciuto, secon- do il quale la lingua, essendo viva, si evolve: cioè si trasforma nel tempo e nello spazio. Il come e il perché ciò accada, li lasciamo agli studiosi. Intanto ne prendiamo atto. Un corretto approccio ai pro- blemi di lingua deve partire da Angolo poetico. 'La donna del violino (ricordi dal Gulag)' Cadevano fiocchi di neve Uno per uno e tutti assieme E si posavano silenti su dita, che Tra l'immenso confinato da pietre Suonavano un violino immagi- nario Del quale toccavano gentili Le corde, con gesti che si ripetevano Maestosi e le palpebre abbas- sate In ascolto di note, cullate Tra le braccia della memoria Dove ritrovare antichi ricordi Dal sapore virgineo ed ingen- uo Ai quali sorridevano appena Le sue timide labbra E poi una lacrima, dietro le ciglia Posate, una lacrima ed una soltanto Che bagnava quelle dita che Sferzavano il profumo di un cielo A noi sconosciuto, senza che lo Possedessero mai Dita che lambivano la fragilità Di quell'istante, nel quale pareva che lei Danzasse tra i fiocchi di neve instancabili, che Cadevano uno per uno e tutti assieme Cogliendo la verità del dolore taciuto Che soltanto lei, la donna del violino Era capace di non sporcare mai. Nemmeno là tra quell'immen- so, che Fu privato della propria iden- tità. DAVIDE ROCCO COLACRAI

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